Gentilissimo Beppe Grillo,
abbiamo letto sul Corriere della Sera di oggi (articolo di Francesco Battistini a pag.11) alcuni stralci di una sua intervista al quotidiano israeliano Yedioth Ahronot. Nell’impossibilità di leggere tutta l’intervista, ci limitiamo ad alcune precisazioni relative alla parte riportata nell’articolo in questione, partendo dal presupposto che lei ama l’Iran, a cui è legato per ragioni personali e affettive che comprendiamo perfettamente, ma noi di Iran Human Rights Italia Onlus non l’amiamo meno di lei. E proprio per questo ci adoperiamo, nel nostro piccolo, per difendere i diritti umani dei cittadini iraniani e per informare l’opinione pubblica italiana sulle violazioni a quei diritti commesse dalle autorità della Repubblica Islamica. Abbiamo recentemente lanciato il nostro sito, www.iranhr.it, proprio con questo obiettivo.
abbiamo letto sul Corriere della Sera di oggi (articolo di Francesco Battistini a pag.11) alcuni stralci di una sua intervista al quotidiano israeliano Yedioth Ahronot. Nell’impossibilità di leggere tutta l’intervista, ci limitiamo ad alcune precisazioni relative alla parte riportata nell’articolo in questione, partendo dal presupposto che lei ama l’Iran, a cui è legato per ragioni personali e affettive che comprendiamo perfettamente, ma noi di Iran Human Rights Italia Onlus non l’amiamo meno di lei. E proprio per questo ci adoperiamo, nel nostro piccolo, per difendere i diritti umani dei cittadini iraniani e per informare l’opinione pubblica italiana sulle violazioni a quei diritti commesse dalle autorità della Repubblica Islamica. Abbiamo recentemente lanciato il nostro sito, www.iranhr.it, proprio con questo obiettivo.
Per quanto riguarda il suo paragone tra l’applicazione della pena di
morte in Iran e negli USA, noi naturalmente non facciamo classifiche.
Ogni persona messa a morte per decisione di un tribunale di stato, a
qualsiasi latitudine, e per qualsiasi reato, è per noi una ferita
profonda. Al tempo stesso, i numeri sono un dato oggettivo al quale è
utile fare riferimento. Nel 2011 negli USA 43 persone sono state messe a
morte (dato in diminuzione rispetto alle 46 del 2010, frutto, questo,
anche di una coscienza abolizionista che faticosamente, ma
progressivamente sta prendendo piede in molti stati americani). In Iran
il dato fornito dal rapporto annuale di Iran Human Rights è di
676 esecuzioni nel 2011 (in aumento rispetto al dato del 2010, 646). Ma,
soprattutto, è diverso il contesto in cui la pena capitale viene
comminata e applicata. Il 38% delle esecuzioni o non sono state rese
note dalle autorità o sono avvenute in segreto, cioè senza darne
comunicazione ad avvocati difensori e parenti degli imputati se non a
sentenza eseguita. Una mancanza di trasparenza che non depone a favore
dell’equità dei processi. Ma c’è di più.
In Iran l’81% delle persone messe a morte nel 2011 era stata
condannata per traffico di droga. I processi si sono svolti nei
tribunali rivoluzionari a porte chiuse e non è dato sapere se gli
imputati abbiano avuto accesso ad avvocati e se i diritti della difesa
siano stati garantiti. L’80% dei condannati per traffico di droga –
quindi la grande maggioranza di coloro che sono stati messi a morte in
Iran nel 2011 – non sono stati nemmeno identificati con nome e cognome, e
perciò è impossibile trovare conferma delle accuse e certezza che il
giudizio si sia svolto in modo equo. In almeno un caso, ma
presumibilmente molti analoghi potrebbero essercene, sappiamo che una
donna, Zahra Bahrami, che era stata arrestata durante
le proteste seguite alle contestate elezioni presidenziali del 2009 e
inizialmente condannata a morte per ragioni “politiche”, è stata poi
invece impiccata con l’accusa di narcotraffico.
Al tempo stesso l’Iran mette a morte rei minorenni (gli USA no), cioè
giovani che all’epoca in cui avevano commesso il reato non avevano
ancora raggiunto la maggiore età: 4 nel 2011, due dei quali erano
minorenni anche al momento dell’esecuzione.
Ricordiamo anche che in Iran è punibile con la pena di morte il reato
di apostasia, cioè il passaggio dalla fede islamica a un altro credo
religioso, e la sodomia, secondo quanto recita l’articolo 233 del nuovo
codice penale islamico: “L’individuo che ha un ruolo attivo
(nell’atto di sodomia) sarà punito con 100 frustate se l’atto sessuale è
consensuale e se non è sposato; colui che invece ha un ruolo passivo
sarà condannato a morte
indipendentemente dal fatto che sia sposato o meno. Se la parte attiva
non è un individuo di religione islamica mentre quella passiva lo è,
entrambi saranno condannati a morte.”
Lei ricorda di avere assistito a un’impiccagione in piazza, a
Isfahan. Il ricorso alle esecuzioni in pubblico è in preoccupante
aumento, in Iran: 65 solo nel 2011 (un dato di tre volte superiore alla
media degli anni precedenti), spesso con ricorso a forme di
spettacolarizzazione che dimostrano come sempre più le autorità iraniane
usino la pena di morte come strumento per diffondere il terrore tra la
gente e aumentare così il “controllo sociale” del regime.
Molto spesso vittime delle esecuzioni sono membri di minoranze etniche: curdi, ahwazi, azeri.
I dati di questa prima metà del 2012 non incoraggiano all’ottimismo.
Nel solo mese di maggio in Iran abbiamo avuto notizia di 78 esecuzioni.
Quanto ai diritti delle donne, lei afferma: “Ho scoperto che la
donna, in Iran, è al centro della famiglia. Le nostre paure nascono da
cose che non conosciamo.” È assolutamente vero che le donne iraniane,
spesso colte, intelligentissime, forti e coraggiose sono il “centro
della famiglia”. Ma a quale prezzo pagano questa “centralità”? Riteniamo
che proprio la “conoscenza” della realtà passi da una corretta
informazione sui diritti che la legge iraniana riconosce (o non
riconosce) alle donne.
Secondo l’articolo 1041 del codice civile, l’età minima per il
matrimonio di una donna è 13 anni. Il padre o anche il nonno della
ragazza possono darla in moglie a un uomo di loro scelta, e di qualsiasi
età. Quindi possono decidere, per assurdo, che una bambina di 13 anni
sposi un vecchio settantenne. L’articolo 1060 del codice civile prevede
invece che, se una donna iraniana intende sposare un uomo straniero, per
farlo deve avere l’autorizzazione del governo. Mettendo insieme queste
due leggi, se ne ricava che il diritto della donna iraniana a sposarsi
con chi vuole è rimesso nelle mani dei maschi della sua famiglia o dello
stato.
L’articolo 1108 del codice civile stabilisce che il marito è il
capofamiglia e che la moglie gli deve obbedienza. Nel caso in cui la
donna rifiuti di obbedire senza ragioni concrete, non avrà diritto agli
alimenti. Pensiamo alle numerose conseguenze implicite in una norma di
questo tipo. La donna è costretta ad avere rapporti sessuali con il
marito anche contro la propria volontà; non può uscire di casa, non può
viaggiare, non può lavorare senza il permesso del marito. L’obbligo ad
avere il permesso del marito per lavorare fuori di casa è peraltro
ribadito dall’articolo 1117 del codice civile, mentre gli articoli 11 e
18, riguardanti la normativa sul rilascio del passaporto, stabiliscono
che la donna, sia per ottenere un passaporto che per viaggiare fuori del
paese, ha bisogno del permesso scritto del marito, salvo casi di
emergenza in cui sarà il procuratore generale a rilasciare il permesso:
ancora una volta o è l’uomo di casa o è il funzionario dello stato a
decidere della vita della donna.
La società iraniana non approva la poligamia, e perciò la legge non
fa esplicito riferimento ad essa. Tuttavia in varie parti del codice
civile la poligamia compare in modo indiretto, in articoli in cui a più
riprese si parla della possibilità che un uomo abbia “delle mogli”. Il
codice prevede anche, con l’articolo 1075, la possibilità del matrimonio
a termine. Questo tipo di matrimonio è un vero e proprio contratto che
un uomo può stipulare con un numero indefinito di donne oltre alla
moglie “stabile”, con un termine che può essere compreso tra un’ora e 99
anni. Una specie di forma legalizzata di prostituzione.
Veniamo alla legge su divorzio. L’articolo 1133 del codice civile
stabilisce che l’uomo può chiederlo e ottenerlo in qualsiasi momento e
senza motivo. Altri articoli stabiliscono invece che la donna può
chiederlo solo per gravi e comprovate ragioni che il giudice dovrà
valutare e risconoscere: l’impossibilità del marito di mantenerla,
l’assenza prolungata e continuata dal tetto coniugale, condanne penali
superiori ai 5 anni, alcolismo o dipendenza da droghe, violenza entro le
mura domestiche. Naturalmente che una donna possa semplicemente dire al
marito: “Voglio il divorzio perché non ti amo più” è fuori discussione.
Una serie di articoli del codice civile, dal 1170 al 1180 e oltre,
stabiliscono inoltre che la donna non ha diritto alla patria potestà sui
figli. Questa spetta infatti al marito e al nonno paterno. Essi non
possono cederla alla donna neppure volendolo. Se il marito muore, la
patria potestà dei figli rimane solo al nonno paterno. La madre ha solo
il diritto alla custodia dei figli fino ai 7 anni di età, quando sono
più grandi nemmeno a quello. Ma anche quando ha diritto alla custodia,
senza il permesso del marito e del nonno paterno non ha diritto a
iscrivere il bambino o la bambina a scuola, non può ricoverare il figlio
o la figlia in ospedale, non può aprire un conto in banca intestato al
figlio o alla figlia. E qualora si risposi, perde anche il diritto alla
custodia dei figli minori di 7 anni.
Per quanto riguarda il diritto all’eredità, la donna iraniana è molto
semplicemente considerata dalla legge la metà dell’uomo. L’articolo 906
del codice civile prevede che se il defunto ha i genitori, il padre
eredita i due terzi, la madre un terzo. Se non ha genitori – dicono
l’articolo 907 e il 908 – i figli maschi devono ereditare il doppio
delle figlie femmine. Se ci sono fratelli e sorelle, di nuovo, ai maschi
spetta il doppio delle femmine. L’articolo 949 afferma che, in assenza
di altri parenti, in caso di morte della moglie, il marito eredita
l’intero patrimonio di lei; se invece a morire è il marito, la moglie
eredita un quarto dei beni e il resto va allo stato.
Le cose non migliorano per quanto riguarda la cittadinanza. Secondo
gli articoli 976 e 986 del codice civile, il figlio di padre iraniano è
cittadino iraniano anche se la madre è straniera, mentre il figlio di
madre iraniana e padre straniero non ha diritto alla cittadinanza, a
meno che non sia nato in Iran e non viva per almeno un anno in Iran dopo
aver compiuto i 18 anni. Questa impossibilità di trasferire la
cittadinanza iraniana dalla madre ai figli di padre straniero ha delle
precise ricadute sociali: basti pensare alle decine di migliaia di
bambini figli di padre afgano o iracheno che non possono accedere
all’educazione, alle cure mediche e a tutti quei diritti che spettano a
un cittadino iraniano.
C’è poi la parte che riguarda il codice penale. L’età mimima per
l’incriminazione è di 15 anni per i ragazzi e di appena 9 per le
bambine. Il “Diye” e cioè la sanzione da pagare a una persona che
subisce un danno fisico, per le donne soggette al danno è la metà di
quella per gli uomini per lo stesso danno della stessa entità. Questo
vale anche per il caso del prezzo da pagare come retribuzione in caso di
omicidio; il prezzo per un uomo musulmano è il doppio di quello per una
donna musulmana.
L’articolo 630 codifica il delitto d’onore. Il marito che scopra la
moglie adultera nell’atto consumare con un altro uomo può uccidere
entrambi. Solo nel caso in cui la donna non fosse consenziente può
essere risparmiata.
Ricordiamo infine che in tribunale la testimonianza di un uomo vale
quanto quella di due donne e che la donna che compare in pubblico senza
hijab, cioè senza velo, può essere punita con una pena che va dai 2 ai
10 mesi di prigione.
Nel 2006 un gruppo di attiviste iraniane ha fondato la campagna Un milione di firme,
che aveva lo scopo di raccogliere un milione di firme per una petizione
indirizzata al parlamento iraniano per l’abolizione delle leggi
discriminatorie. Il gruppo è stato decimato dagli arresti e dalle
persecuzioni.
Tralasciamo le sue osservazioni sulla situazione economica del paese,
perché richiederebbero valutazioni politiche che non competono a
un’associazione per i diritti umani come la nostra, ma un’ultima
considerazione ci sia permessa a proposito della sua frase: “Quelli che
scappano sono oppositori.”
Comprenderà bene lei, come chiunque, che non si tratta di una
situazione né normale né incoraggiante. Laddove un oppositore o un
dissidente è costretto a lasciare il proprio paese perché la sua
attività politica e la manifestazione del suo pensiero ne mettono a
rischio la libertà o l’incolumità, siamo di fronte a una chiara
violazione dei diritti elementari dell’uomo. Ed è esattamente ciò che
accade nella Repubblica Islamica dell’Iran, dove dopo le contestate
elezioni presidenziali del 2009, migliaia di dissidenti, studenti,
giornalisti, intellettuali, artisti, difensori dei diritti umani,
attivisti per la parità di genere, esponenti di minoranze etniche,
politiche e religiose sono stati arrestati, spesso posti in isolamento e
torturati, sottoposti a processi iniqui (alcuni dei quali di massa e
teletrasmessi dalla televisione di stato) in cui è stato loro negato
l’accesso agli avvocati e che si sono conclusi con condanne a pene
detentive molto severe, e talvolta alla pena capitale. Molti altri sono
stati costretti a lasciare l’Iran per sfuggire a tutto questo, e certo
non solo perché il quadro politico del paese non era di loro gradimento.
Questo le dovevamo, proprio perché è vero, come lei afferma, che “le
nostre paure nascono da cose che non conosciamo” e in questo caso non è
la paura il sentimento che vorremmo evocare, ma – proprio attraverso la
conoscenza dei fatti – un sincero moto di adesione alla causa dei
diritti umani in Iran, per la quale continueremo a batterci.
Con stima
Marco Curatolo
Presidente di Iran Human Rights Italia Onlus
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